I ripopolamenti per la pesca professionale e ricreativa

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I ripopolamenti per la pesca professionale e ricreativa

Fino a una ventina di anni fa la gestione della fauna ittica non era mossa da sensibilità ambientale, almeno come la conosciamo oggi: era finalizzata esclusivamente al ripopolamento a scopo pesca e dunque alla conservazione e incremento delle specie per pescarle. Era quindi una gestione quantitativa: le acque dovevano essere sufficientemente pescose per soddisfare i pescatori. Se si parlava di qualità era sempre per soddisfare il requisito della pescosità.

I ripopolamenti ci sono sempre stati ma iniziano a diventare una pratica sistematica tra fine Ottocento e i primi del Novecento, quando si sperimenta anche l’immissione di nuove specie ittiche per aumentare la disponibilità di specie. Questa prima concezione del concetto di ripopolamento è legata allo sfruttamento economico delle risorse ittica e dunque alla pesca professionale. Vengono interessati soprattutto i grandi laghi dove si punta ad incrementare le specie economicamente più redditizie (come salmonidi, percidi e anguille) e ad introdurre specie che possano avere un futuro economico (come coregoni, pesci gatto, persici trota). Iniziano anche ad essere introdotti limiti alla pesca, dai periodi di divieto coincidenti con i periodi di frega, ai divieti di pesca nelle aree scelte dalle varie specie per la riproduzione. A questi divieti si aggiungono le taglie minime, sotto le quali è obbligatorio rimettere il pesce in acqua. Il concetto della taglia minima è ancora legato, in primis, alla necessità di non sprecare una risorsa che può fornire quantitativi commerciali maggiori se si aspetta che il pesce cresca. Ma inizia a farsi strada (ed è la motivazione ufficiale inserita nei regolamenti) l’idea che un pesce vada pescato solo se si è riprodotto almeno una volta, cioè dopo che ha superato l’età minima della prima riproduzione.

Si riscoprono anche i diritti esclusivi di pesca, sia nella forma di diritti esclusivi privati (come retaggio di benefici feudali) sia come usi civici (come retaggio del periodo comunale quando i signori concedevano ai cives il diritto).

Nascono le prime stazioni di piscicoltura (la prima è quella di Brescia, 1892) mentre sui laghi iniziano realizzarsi opere di salvaguardia degli ambienti di frega, come la posa delle fascine nelle zone di frega del pesce persico.

Negli anni 10 del Novecento iniziano anche i ripopolamenti di trote nei fiumi nei torrenti. Si tratta di trote fario, nome scientifico Salmo trutta, la specie diffusa nei nostri torrenti alpini (lo stesso si stava già facendo con la trota di lago e con il salmerino alpino nei laghi).

Ma l’attività sistematica e organizzata di ripopolamento, finanziata dallo Stato attraverso le Province e le Prefetture, inizia negli anni ’20. Nel secondo decennio del Novecento si rafforza l’idea che lo Stato avrebbe dovuto concorrere al sostentamento delle popolazioni rurali, anche attraverso il ripopolamento della fauna ittica. Ancora una volta, la specie privilegiata è la trota fario nei torrenti alpini, mentre nei laghi e nei fiumi di pianura si immettono anguilline, coregoni (lavarelli e bondelle), carpe, tinche, in qualche caso, lucci. Vengono creati impianti ittiogenici pubblici e viene varata la norma che prescrive ai gestori delle dighe idroelettriche di ripopolare a proprie spese i tratti di corsi d’acqua a monte delle dighe che i pesci non riescono a superare nella ricerca delle zone di frega.

Negli anni ’30 con il regime dell’autarchia, voluto dal governo fascista in risposta alle sanzioni internazionali seguite all’invasione dell’Etiopia, i ripopolamenti furono intensificati, sempre con lo scopo di aiutare il sostentamento delle popolazioni rurali e la pesca commerciale.

Alla ricostruzione del dopoguerra e allo spopolamento delle vallate e delle zone lontane dalle industrie segue il boom economico che trova le popolazioni rivierasche trasformate in operai e non più intente allo sfruttamento economico della risorsa ittica.

A fronte di questo rapido regredire della pesca professionale si riscontra una crescita della pesca ricreativa. Crescono le licenze di pesca (i “libretti blu”, oggi sostituiti con versamenti postali e pagamenti online) e cresce anche la Federazione italiana pesca sportiva e attività subacquee, affiliata al Coni, che nel lago Maggiore e nell’Ossola (come in moltissime altre zone d’Italia) riceve in gestione le acque. Per pescare ci vuole, quindi, la licenza “governativa” con il pagamento di tasse allo Stato a cui molti pescatori aggiungono il pagamento dell’affiliazione annuale alla Fips (oggi Fipsas).

Per soddisfare le aspettative dei pescatori che pagano la licenza e la tessera Fips che permette di pescare nelle acque riservate, vengono incrementati i ripopolamenti cosiddetti “pronta pesca” con pesci adulti. Nasce l’era delle trote iridee, il cui nome scientifico era allora Salmo Gairdneri, incrocio di allevamento di alcune specie americane, molto produttivo, di rapido accrescimento, vorace e dal basso costo. La trota iridea è quella preferita per alimentare le competizioni sportive, le gare di pesca. Ogni comune montano ha un’associazione che organizza gare di pesca dove ad ogni appuntamento vengono immessi quintali di iridee. Lo stesso accade prima dell’apertura della pesca alla trota, tradizionalmente fissata l’ultima domenica di febbraio. La trota diventa il pesce più ripopolato in assoluto. Le iridee vengono immessa anche nel Ticino e nei canali irrigui di pianura. Dove ci sono le trote e quindi anche le iridee la Federazione classifica i tratti come “acque rosse” prevedendo un regolamento più restrittivo delle acque a ciprinidi. Questi ultimi (a parte carpe e tinche) non vengono fatti oggetti di ripopolamento anche per la capacità di produrre centinaia di migliaia di uova per chilo di peso a differenza delle trote che ne producono solo 2.500 per chilo.

I ripopolamenti massicci di trote diventano l’esempio della gestione quantitativa della fauna ittica. I limiti di pescato servono soprattutto ad accontentare tutti i pescatori che possono portare a casa la loro “quota” di trote.

Nel frattempo, il boom economico porta anche l’incremento dell’inquinamento industriale con frequenti morie di pesci sotto impianti come le concerie, le cartiere, le industrie chimiche. Cresce il numero di dighe e impianti idroelettrici, cresce l’eutrofizzazione da scarichi fognari. Si era ancora lontani dall’idea di salvaguardia dell’ambiente: gli inquinamenti suscitano proteste perché provocano la moria dell’oggetto della pesca professionale e ricreativa.

Si va avanti così fino agli anni ’80, quando le Regioni diventano operative e arrivano le leggi regionali sulla pesca. Le misure minime iniziano ad allungarsi (emblematico proprio il caso della trota che passa dai 15 cm degli anni ’20, ai 18 degli anni ’50 ai 20 degli anni ’90, fino ai 22-25 dei giorni nostri). Si istituiscono periodi di divieto anche per i ciprinidi, si allungano i periodi per le altre specie, si introducono i primi limiti per l’esca della pesca consumistica per eccellenza: il bigattino, la larva di dittero, la mosca carnaria) prodotta a livello industriale che permette di attirare i pesci risparmiando tempo da dedicare alla preparazione delle pasture.

In questo periodo la gestione della pesca nel VCO è comunque all’avanguardia con regolamenti molto più restrittivi del resto del Piemonte e del resto d’Italia e una forte gestione improntata in senso comunitario con i 40 anni di storia dell'Associazione volontaria pesca montanari ossolani.

Si arriva piano piano a una nuova concezione della pesca sportiva, come si definiva allora la pesca dilettantistica. Con il boom della pesca a mosca nasce il concetto di No Kill, dove l’azione anche molto atletica di pesca si esaurisce non con il consumo del pesce in cucina ma con il suo rilascio. Le Province iniziano a dotarsi di consulenti scientifici: ittiologi che iniziano a predicare la salvaguardia delle specie autoctone, di cui diventa l’emblema assoluto la trota marmorata. Questa, fino a pochi anni prima considerata una sottospecie della trota fario, ora inizia ad essere considerata una specie a se stante anche se si ibrida con la fario. Ed è proprio per salvaguardare questo endemismo padano che si inizia a porre maggiore attenzione anche alla qualità oltre alla quantità dei ripopolamenti. Alle immissioni di pesci e avannotti comprati sul mercato ittiogenico si affiancano i primi incubatoi ittici gestiti dalle Provincie e dalle associazioni come la Fips che producono avannotti da trote autoctone come le marmorate.

Questo nuovo modo di gestire le acque si rafforza negli anni ’90, quando i pescatori iniziano a diventare anche gestori e non solo più utenti. Una tendenza che diffonderà nei primi anni 2000.

Oggi non vengono più immessi pesci pronta pesca e la gestione ittica è improntata a criteri ambientali.

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