Ossola, la pesca sostenibile arriva da lontano

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Ossola, la pesca sostenibile arriva da lontano

La pesca nei torrenti e nei laghi in quota dell’Ossola è sempre stata gestita con una particolare sensibilità ambientale. Alcune scelte delle associazioni dei pescatori ossolani hanno davvero precorso i tempi, quando o pescatori sportivi non erano particolarmente attenti al problema dell’inquinamento e della conservazione delle specie ittiche ma l’argomento che interessava di più erano le catture e quindi i ripopolamenti pronta pesca.

Intanto, i torrenti ossolani che dai 4.000 metri del Monte Rosa e dai 3.000 delle altre montagne confluiscono nel Toce e, quindi nel Lago Maggiore, sono sempre stati considerati un bene prezioso dalle comunità valligiane. La pesca della trota e del temolo era radicata in tutte le famiglie e il pesce di torrente costituiva una importante fonte alimentare. Da questo attaccamento è nata una gestione comunitaria e “sociale” minata spesso dall’accaparramento dei diritti di pesca da parte di privati che li ricevevano in affitto da antichi beneficiari di origine nobiliare o religiosa.

Da questa lunga tradizione di custodia delle proprie acque nasce l’Associazione volontaria pesca montanari ossolani il 7 maggio 1954 con decreto ministeriale. L’Avpmo è erede della sezione Alta Ossola del Consorzio tutela pesca del Piemonte e della Liguria, sezione nata nel 1941. La storia dell’Avpomo (notare l’aggettivo “montanari” mostrato con orgoglio) è durata fino al 1996 quando si scioglie. La concessione delle acque e molti volontari passano alla Federazione italiana pesca sportiva e attività subacquee del VCO che, di fatto, è oggi erede di una tradizione secolare che affonda le radici nei primi decenni del ‘900.

I pescatori volontari dell’Avpmo sono stati i primi (non senza forti discussioni interne) a credere in una pesca conservativa e non solo “razziatrice”.  

Già negli anni ’70 nell’Ossola erano in vigore limitazioni nelle dimensioni degli ami, consentiti da una certa taglia in su per evitare il più possibile di allamare le trote piccole. Vigevano limiti per le esche e nei periodi divieto che non erano ancora in vigore nel resto d’Italia. Già dal 1968 la taglia minima della trota viene portata a 20 cm quando nel resto d’Italia era a 18 cm. Poi, il limite massimo di pesci da trattenere posto a 10 tra salmonidi e timallidi di cui solo 5 temoli. E poi il divieto della larva di mosca carnaria (o bigattino o cagnotto o gianin) per limitare la pasturazione e il divieto, nel periodo di riproduzione del temolo, della pesca con la camolera, la lenza radente il fondo che terminava con il “piombo lungo” o temolino e aveva come esche i mitici camolini ossolani, pregiato esempio di artigianato della pesca.

Una consuetudine che sfruttava, a fini comuni, il sogno di molti pescatori, era quella di consegnare a ciascun iscritto prestatore di opera (recuperi, lavori comuni etc) una certa quantità di avannotti che poteva “seminare” dove voleva. In questo modo, le trote sono state portate in torrenti impervi in tratti davvero distanti da paesi e strade, ripopolando corsi d’acqua dove nessuno sarebbe andato a portarli se non per coltivare la speranza di essere, poi, il solo ad andare proprio lassù a pescarsi le trote adulte.

A proposito di ripopolamenti, i volontari dell’Avpmo furono i primi a utilizzare le scatole Vibert, grazie alla collaborazione con Giovanni Mittag, itticoltore ossolano che amava sperimentare e innovare. Le scatole Vibert sono contenitori in materiale plastico riempiti di uova di trota già fecondate. Queste scatoline sono in realtà dei contenitori fittamente bucati con fori oblunghi da cui le uova non possono uscire ma da cui potranno passare gli avannotti una volta usciti dalle uova. Le scatole Vibert sono comode da trasportare, basta avvolgerle in panni con ghiaccio. Una volta sul torrente vanno legate a una radice e coperte con ghiaia. Le uova si schiudono a fine inverno.

L’Avpmo è stata anche la prima associazione a creare un sistema di gestione della trota autoctona padana, la trota marmorata, attraverso un proprio sistema di incubatoi e allevamenti. I riproduttori di trote marmorate, considerate le vere trote autoctone, chiamate le “grigie” del Toce, venivano catturate e poi “spremute” ricavano così uova dalle femmine e, ovviamente, sperma dai maschi. Gli avannotti venivano poi immessi in langhe del Toce o in risorgive da cui di diffondevano nel fiume. Questo procedimento è quello obbligatorio oggi, per legge, per i ripopolamenti di trota marmorata in tutte le regioni padane.

L’attività dell’Avpmo proseguiva con la semina di trotelle ed esemplari adulti di trota fario, il salvataggio di pesci da zone in asciutta e le prime denunce contro industrie inquinanti (una triste storia questa delle fabbriche inquinanti, che ha lasciato eredità pesanti).

Una curiosità che come le altre informazioni abbiamo tratto dal libro di Michele Marziani, “I custodi delle acque. Storia dell’Avpmo”, una curiosità che oggi suona come un ricordo pieno di nostalgia: il verbale di recupero, nel 1958, di circa un quintale di anguille, specie oggi scomparsa dall’Ossola.

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